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Ora tocca a Giuseppe Conte decidere se ciò che Mario Draghi ha messo sul piatto – salario minimo, taglio del cuneo fiscale, rinnovo dei contratti collettivi – può bastare a seppellire l’ascia di guerra. O se, al contrario, non fidarsi degli annunci al buio e non votare la fiducia al dl Aiuti al Senato, assumendosi il rischio della fine anticipata della legislatura. Perché per il premier «non esiste questo governo senza i 5 Stelle, e non esiste un altro governo Draghi». Conte è consapevole della posta in gioco e non vuole sbagliare mossa. Per questo, «vista la delicatezza del momento» ha rimandato ogni risposta al presidente del Consiglio a questa mattina, dopo la riunione del Consiglio nazionale M5S, convocata alle 8.30.

Ma dopo giorni di tensioni alle stelle, l’ex premier sa che sarà difficile tirare il freno a mano in faccia all’ala ortodossa del Movimento e convincere tutti a votare il decreto perché in fin dei conti Draghi ha “ceduto” alle richieste grilline. I duri e puri alla Alberto Airola, il senatore pentastellato che ancor prima di ascoltare la conferenza stampa definiva «il nulla» le risposte di Draghi alle richieste 5S, continueranno a concentrarsi sulle divergenze più che sulle possibili convergenze con l’agenda di Palazzo Chigi. Il sì all’inceneritore di Roma, il no allo scostamento di bilancio, le promesse vaghe sul salario minimo, le mancate garanzie sul superbonus, i nuovi invii di armi all’Ucraina. Saranno questi gli argomenti dell’ala barricadera. Che però dovrà fare i conti con un esercito eterogeneo di governisti di diverso rito: si va dai peones (preoccupati solo dallo stipendio o da una insperata ricandidatura da raccattare in giro), ai confusi, fino sinceri sostenitori del dialogo come strumento per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Tra questi ultimi, da ieri, si iscrive d’ufficio il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, che solo poche ore fa gongolava per l’annuncio di un «un provvedimento sul salario minimo. L’azione politica del M5S è seria ed efficace. Così si aiutano milioni di lavoratori che hanno paghe “da fame”. Altro che Papeete bis».

Conte dovrà riuscire a tenere insieme tutte le anime del suo partito senza dimenticare le ultime parole di Draghi: «Il governo con gli ultimatum non lavora, a quel punto perde il suo senso di esistere, se si ha la sensazione che è una sofferenza straordinaria stare in questo governo, che si ha fatica, bisogna essere chiari». Se il M5S decidesse dunque di votare la fiducia in Senato giovedì non potrebbe più continuare a bombardare l’esecutivo di cui fa parte. O dentro o fuori. Un avvertimento, quello dell’ex Bce, indirizzato non solo ai grillini ma anche ai «tanti altri che a settembre minacciano sfracelli e cose terribili».

L’avvocato dovrà scegliere una volta per tutte da che parte stare. La strada dell’appoggio esterno, su cui fino a ieri si ragionava al quartier generale pentastellato, non sembra più percorribile dopo la conferenza stampa di Draghi. A meno che Sergio Mattarella non riesca a persuadere il premier a rimanere a Palazzo Chigi anche senza il sostegno del Movimento 5 Stelle. Ma sarebbe una scommessa al buio, un azzardo troppo pericoloso per l’avvocato. E non sarebbe l’unico. Perché sul tavolo di Conte balla anche l’alleanza col Pd tanto faticosamente costruita in questi ultimi due anni. Rompere con Draghi equivarrebbe a rompere con Enrico Letta: una condanna all’isolamento in caso di ritorno immediato alle urne. Il presidente M5S passerà la notte ad arrovellarsi su questo rebus. Stamattina dovrà emettere un “verdetto”. E qualunque sia dovrà essere l’ultimo.