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Prima dell’inizio dell’udienza a Perugia, lungo conciliabolo tra l’ex consigliere del Csm, il procuratore capo Raffaele Cantone e il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo

Un lungo conciliabolo tra il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, l’aggiunto romano Paolo Ielo e Luca Palamara. È questo il siparietto che ha preceduto l’udienza di ieri nel processo a carico dell’ex consigliere del Csm, imputato davanti al tribunale del capoluogo umbro in due diversi processi, uno per corruzione, l’altro per rivelazione di segreto d’ufficio. Udienze dove a tenere banco, più che le accuse mosse a Palamara, sono state le fughe di notizie che hanno caratterizzato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Fughe mirate, dal momento che a finire sui giornali, proprio come due anni fa, è stato solo il materiale relativo all’ex pm romano. Ed è stato questo, ieri, l’argomento di conversazione tra i tre magistrati.

La procura di Perugia, da un lato, è sicura di aver individuato la propria talpa: un dipendente amministrativo che avrebbe scaricato abusivamente la richiesta di archiviazione, che oggi si trova in mano a diversi giornalisti ma non allo stesso Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e uomo chiave di quell’inchiesta. E se fino ad oggi nulla si è mosso in merito alla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni del Palamaragate, questa volta sembra respirarsi un’aria diversa.

Le indagini condotte da Perugia e da Firenze, procura alla quale l’ex presidente dell’Anm si è rivolto per scoprire quale manina consegni sistematicamente gli atti che lo riguardano a Corriere e Repubblica, questa volta potrebbero infatti portare a tracciare una linea tra quanto successo il 29 maggio 2019 – giorno della cena all’Hotel Champagne – e l’ultima discovery. L’idea della procura di Perugia sembra coincidere con quella di Palamara: dietro quel funzionario impiccione potrebbe esserci qualcuno. E le fughe di notizie, dunque, potrebbero non essere una casualità. «Questa fuga di notizie conferma che si è giocata un’altra partita, oltre a quella dell’indagine penale – commenta a fine udienza l’ex zar delle nomine -. È chiaro che se di mezzo ci sono sempre le stesse persone, le stesse situazioni, e se a finire ai giornali sono solo le pagine che mi riguardano vuol dire che qualcuno voleva qualcosa. E per capire come sono andate le cose faremo tutto il possibile, con tutte le forze».

L’idea è che qualcuno abbia utilizzato le vicende dell’Hotel Champagne per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, magari non con lo scopo di arrivare ad un processo, ma per far vedere come “funzionava” il Csm. Una sorta di golpe giudiziario, insomma, per mandare via quelli che erano stati legittimamente eletti e sovvertire il gioco di forze fino a quel momento in atto. Palamara ha espresso il suo punto di vista con chiarezza ieri in aula, quando il magistrato spogliato della sua toga ha preso la parola per fare dichiarazioni spontanee. «Se deve essere un processo deve esserlo nelle aule di giustizia – ha dichiarato -. Sono anni che leggo quello che mi riguarda sui giornali», comprese le intercettazioni fatte il 29 maggio del 2019, servite per «consentire ad un gruppo della magistratura di prendere il posto e governare per quattro anni il Csm. A quello servì la vicenda dell’Hotel Champagne».

L’ex pm è tornato sul trojan a intermittenza, spento alle 16.02 del 9 maggio, dopo aver annunciato ad Adele Attisani – coimputata nel processo per corruzione che avrebbe incontrato a cena l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino per festeggiare il pensionamento del primo. «Se gli altri fanno errori nella foga di dovermi legare le mani poi non ci si deve lamentare che la gente voglia capire quello che c’è dietro», quindi commentato. Palamara ha parlato di «scandalo» e «veline» passate ai giornalisti con scopi diversi dalla necessità di informare. Ma il racconto che ne è venuto fuori, ha sottolineato, «è una buffonata», «una presa in giro fatta a migliaia di magistrati in Italia», motivo per cui ha deciso di raccontare tutto nei suoi libri. Compreso lo scopo dietro il trojan all’Hotel Champagne: «La mia iscrizione nel registro degli indagati è stata fatta per far saltare la nomina di Viola alla Procura di Roma», ha dichiarato.

Palamara ha anche parlato della sua frequentazione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato una condanna a un anno e sei mesi e che secondo la procura avrebbe pagato cene e viaggi all’ex pm per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. «Il problema delle frequentazioni riguarda non solo il sottoscritto, ma anche Pignatone, gli esponenti del Pd, il mondo della finanza», ha dichiarato. Dopo una cena nel 2016 con il lobbista a Villa Paganini, ristorante nei pressi di corso Trieste a Roma, offerta dallo stesso Pignatone, «il mio procuratore capo mi disse che non poteva più frequentarlo e mi aveva messo in guardia, “evita”, mi disse. La nostra frequentazione, invece, è andata avanti perchè per me era un amico di famiglia: continuai a frequentarlo anche nel 2017». E fino a maggio di quell’anno, data dell’iscrizione del lobbista al registro degli indagati, «io frequento un incensurato, carte alla mano».

I due processi riprenderanno ora dopo l’estate: quello per corruzione tornerà in aula il 19 settembre, quando dovrebbe essere definita la costituzione delle parti civili, quello per violazione di segreto d’ufficio, nel quale è imputato insieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava (quest’ultimo accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e abuso di ufficio) il 26 settembre. In aula, ieri, anche la richiesta, poi rigettata dal Tribunale, dei legali di Palamara di depositare, nell’ambito del processo per corruzione, le due denunce per fuga di notizie presentate alla procura di Firenze, una nel novembre 2020, l’altra l’ 11 luglio scorso. Ad opporsi il procuratore Cantone insieme ai sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani.