«Nessuna categoria è fissata per sempre, nessun concetto è scritto nella pietra, bene, male, donna, uomo» ci dice il belga più amato da Hollywood. Forse è per questo che nella serie western di cui è protagonista, maschile e femminile ci parlano delle relazioni di oggi, nel nostro mondo. Quando finalmente anche i duri possono piangere. Come fece per primo Marlon Brando. Rompendo il più tenace dei tabù
L’ultima volta che abbiamo incontrato Matthias Schoenaerts ci aveva fornito una chiave di lettura – era il 2018 e lui aveva aggiunto un altro tassello alla galleria dei dannati, degli ombrosi, delle creature al limite che si ostina a compilare: «Adoro la gente che si fotte la vita». Ci sono cose che non passano col tempo e l’uomo che, quando interpretò Un sapore di ruggine e ossa, fece scrivere al critico del Guardian che ci trovavamo di fronte a «un bruto impossibile da amare che arrivava direttamente dal paradiso del casting», non ama essere incoerente.
Con Django, la serie tv che Sky manderà in onda dal 17 febbraio, regia dei primi quattro episodi di Francesca Comencini che ne è anche il direttore artistico, si premura di vedersela direttamente col mito, il personaggio cardine della cultura degli spaghetti western creato da Sergio Corbucci nel 1966 e ripreso in innumerevoli produzioni, fino alle celebrazioni, a Oriente, di Takashi Miike nel 2007 e, a Occidente, di Quentin Tarantino nel 2012. Nel Django di Comencini, Schoenaerts è un pistolero nel Texas di fine ’800, non trascina una bara (altri lo fanno, però) come Franco Nero, ma con lui condivide un passato di sangue. Strascica i suoi speroni nella sabbia finché non arriva a New Babylon, città arroventata dove non dimora la pietà. Ma dove vive sua figlia, unica possibilità di redenzione.
Django, un uomo in cerca di futuro
Django è un uomo in cerca di una seconda chance più che di vendetta, a questo giro.
La crisi intima di un uomo è al centro di un’avventura. Django cerca di andare avanti dopo aver perduto tutte le persone che amava, intravede solo una possibilità nel suo futuro e la cerca disperatamente. Esprimere l’amore che prova è allora per lui l’unica alternativa a sparire dalla faccia della Terra. Tutto questo nella capsula del western. Molto, molto affascinante.
Matthias Schoenaerts è Django. La serie andrà in onda su Sky Atlantic dal 17 febbraio.
La paternità è una novità rispetto all’originale. E il suo personaggio si chiama Julien, come suo padre…
È una coincidenza felice. E mia sorella, che purtroppo non c’è più, si chiamava Sarah, come il personaggio di mia figlia nella serie (interpretato da Lisa Vicari, attrice tedesca di origine italiana, ndr). Ho letto il copione con molta più attenzione quando me ne sono reso conto (arriva la cameriera, siamo alla Soho House di Roma, i due si abbracciano calorosamente, si scambiano complimenti in italiano e inglese). Sono stato qui per quattro mesi durante le riprese. Ero diventato parte del mobilio.
Sembra essere stato un bravo figlio, alle cerimonie sempre accompagnato da sua madre che spesso veniva sui set. Mentre non voleva seguire le orme di suo padre, uno degli attori di cinema e teatro più popolari del dopoguerra in Belgio…
Un sacco di pensieri mi sono passati per la testa quando alla fine ho deciso di fare proprio quello che faceva mio padre. Quegli stessi pensieri si sono riproposti anni dopo, quando ho iniziato a lavorare a questa serie. Quando ero adolescente facevo cose, un sacco di cose, suonavo, dipingevo, ma se ce n’era una che non volevo fare a nessun costo era recitare. Non volevo confrontarmi con il talento del grande Julien Schoenhaerts. Quando poi mio padre è entrato in coma, ho deciso di iscrivermi al Conservatorio. Non per seguire le sue orme, ma per provare a capire chi era. Ormai era troppo tardi per fargli domande, e prima, quando avrei potuto, eravamo distanti io e lui. Lo siamo stati per lungo tempo. Credo si possa dire che sono diventato attore per caso.
Django si ispira al western del 1966 con Franco Nero.
Avrebbe potuto fare altro? È decisamente multitasking, dipinge graffiti, come faceva da ragazzo con il nome d’arte Zenith, e ha scoperto di avere un talento per la fotografia.
Per tutta la vita mi sono tenuto impegnato, non riesco a stare fermo: suono quattro strumenti, dipingo e ora vorrei combinare qualcosa con la fotografia, ma non ho fretta. Ci vuole un esercito per fare un film, è come andare in guerra. Se devo aspettare che si formino i ranghi non voglio stare con le mani in mano.
La ribellione del Western
Non si rilassa, non fa meditazione come tutti a Hollywood?
Venti minuti è il mio tempo massimo di inattività. Mediterò quando sarò morto.
Lo spaghetti western, secondo Francesca Comencini, veicola un’idea di libertà, anarchia, ribellione. È così anche per lei?
Il western è il genere in cui i personaggi si rivoltano contro la legge, contro un tiranno, una famiglia, contro gli indiani o contro i coloni, è un genere ribelle. Nel West c’è sempre una rivoluzione da qualche parte e ci sono sempre catene, vere o invisibili, di cui liberarsi, c’è lotta di classe e spazio per le botte. E poi il western non muore mai. È un genere arcaico che ogni volta può essere interpretato con spirito modernista, come facciamo in Django a proposito della mascolinità e della femminilità.
Matthias Schoenaerts con Nicholas Pinnock in Django.
In effetti ci sono donne che si comportano come uomini e cercano vendetta, come la terribile Noomi Rapace, cattiva e integralista, e uomini come lei con un lato femminile che non si vergognano di mostrarlo.
Ed è per scelta. Non si tratta solo di reinventare il genere, ma di raccontare il cuore di uomini e donne nel mondo in cui ci troviamo oggi. Nessuna categoria è fissata per sempre, nessun concetto è scritto nella pietra, bene, male, donna, uomo. Mi sorprende quanto spesso ci troviamo a parlare di queste categorie ultimamente. Tecnologicamente siamo andati così lontano, ma siamo dei veri ritardati quando si tratta di affrontare le fondamentali questioni filosofiche del nostro tempo: siamo lenti, il nostro pensiero è arrugginito quando si tratta di accettare il nuovo.
Che cos’è oggi il nuovo?
Non direi che la sensibilità sia una prerogativa femminile. Siamo bloccati negli archetipi. Quando Marlon Brando pianse sullo schermo tutti impazzirono e parlarono di una nuova forma di mascolinità. Gli uomini piangono, lui fu il primo a farlo al cinema e andò contro il pensiero corrente.
Le lacrime di Brando
Lei viene spesso confrontato a Brando per la sua fisicità (“il Brando belga”, ma anche “il De Niro fiammingo”)…
Ci sono paragoni peggiori. E poi, ma si può ridurre la sensibilità a un’evidenza esteriore come le lacrime? Sommiamo stereotipi a stereotipi.
Dà l’impressione di vivere nel presente, desiderare di essere attivo, anche politicamente. Dopo aver girato Mustang (in cui era un galeotto inserito in un programma di riabilitazione con cavalli selvaggi), si è adoperato per migliorare le condizioni delle carceri in Belgio.
Tutto quello che facciamo deve avere anche una componente per gli altri. Ho dipinto un murale sulla parete del carcere di Anversa che contiene una poesia di mio padre. In quel momento sono tornato indietro a quando ero un ragazzo e cercavo di capire qual era il modo più giusto per esprimermi. Lo cercavo nei libri che riproducevano i quadri di Monet o Rubens, poi ho visto quelle cose colorate sui muri delle strade e ho cominciato a farli anche io.
Matthias Schoenaerts e Maya Kelly in Django.
Anversa è sempre casa?
Sì, ma mi sono abituato a fare andata e ritorno. Ora la vedo con occhi diversi, ha la qualità di vita di un villaggio, da piccolo mi sembrava una metropoli.
Ricevi news e aggiornamenti sulle ultime tendenze beauty direttamente nella tua posta
E l’America come la vede?
È un luogo in perenne cambiamento, complicato. Ma tutto il mondo è complicato. Ci vorrebbe una rivoluzione etica. C’è ricchezza per tutti, cibo per tutti, acqua per tutti, quello che manca è l’etica. È impossibile che sempre più individui non siano in grado di pagare la bolletta della luce. Chi ci dice «Non c’è alternativa» è certamente in malafede.
iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA