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Una diva. Nella vita e nell’ultimo film, Mon crime – La colpevole sono io. Dove, su richiesta di François Ozon, alza parecchio la voce. E organizza una discutibile rentrée. A noi ha spiegato la sua idea di cinema. Superiore a tutto. Anche alla politica
Proviamo simpatia per la collega del Figaro, forse la sentiamo persino un po’ sorella quando, all’indomani dell’intervista a Isabelle Huppert, scrive di averla sognata «in pigiama nella mia cucina, tanto mi sembrava di aver passato un’ora con una sorellina calma e gentile».
Se dovessimo sognare Isabelle Huppert, all’indomani di questa intervista, vorremmo che fosse in versione Odette Chaumette, la sciantosa dalla fulva chioma riccia che il cappello a larghe falde stenta a contenere, dell’ultimo film di François Ozon, Mon Crime-La colpevole sono io, molto liberamente ispirato alla commedia del 1935 di Georges Berr e Louis Verneuil (al cinema dal 25 aprile).
Odette è una diva del muto che l’arrivo del sonoro ha spinto ai margini. Ma non è Norma Desmond di Viale del tramonto, niente colpi di testa, anzi molto senso pratico: è stato commesso un delitto, una giovane attrice con poco talento (Nadia Tereszkiewicz, fresca di César per Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi) è sul banco degli imputati per aver sparato a un produttore che l’aveva costretta sul divano. La sua coinquilina, un’avvocata con pochi clienti (Rebecca Marder), la difende.
Il sublime come-back di Odette Chaumette
Isabelle Huppert con Fabrice Luchini e il regista François Ozon sul set di Mon Crime (al cinema dal 25 aprile, distribuito da Bim).
Per entrambe il tribunale è il più perfetto dei palcoscenici e la requisitoria la performance della vita. Finalmente il successo! «Questo è il principio feroce del film» scrive Positif. «Rileggere i nostri anni 2020 con l’unità di misura del 1935, per far emergere tutta l’ironia della nostra contemporaneità, senza ignorare le infamie di allora». Odette, che appare a un’ora e cinque dall’inizio del film, fa il suo sublime come-back. Secondo Ozon siamo di fronte semplicemente «al trionfo della sorellanza».
«Mi ricorda di che film dobbiamo parlare…». Isabelle Huppert, dopo essersi scalmanata più di Herbert von Karajan in Mon Crime, accaparrandosi il proscenio, ora nella spoglia inquadratura frontale di Zoom prova a fare ordine (ha quattro film solo nel 2023, l’incertezza è legittima).
Si guarda Mon crime e viene da chiedersi, come fa Anna Magnani in La carrozza d’oro di Jean Renoir – anche lì l’azione parte con un sipario che si apre -: «Dove comincia il teatro, dove finisce la vita?».
Ozon sarebbe molto contento del paragone. Il film gira proprio intorno a questo, alla teatralità che c’è nella vita. Viene da una pièce degli anni ’30, la teatralità di quell’epoca aveva codici diversi. Allora si esagerava, c’era una sorta di isteria della parola. Il mio personaggio ne è un esempio…
Un elogio del falso?
È l’evidenza dell’artificio dentro cui di colpo si manifesta una verità. Vita privata e pubblica si mescolano, la realtà diventa finzione e, grazie ai mass media, conduce al successo.
Isabelle Huppert in Violette Noziere di Claude Chabrol.
Tra le assassine che i titoli dei giornali citano a paragone nel film c’è anche Violette Nozière, la parricida che lei interpretò nel 1978 per Claude Chabrol. Tutto si tiene: passato e presente, il femminismo storico e #MeToo.
Quello di Violette Nozière, all’epoca del film di Chabrol, non era un caso del tutto chiuso, dell’incesto che lei aveva subito da parte del padre si era parlato poco. Oggi, con quello che è successo, con la liberazione della parola delle donne, possiamo vederlo in un’ottica diversa e, nel film, il confronto si impone. Nella storia di questa giovane attrice che si autoaccusa dell’omicidio di un produttore che la molestava c’è la presa di consapevolezza che la sua è legittima difesa e che la presunta assassina è in realtà la vittima. Ed è qui che il film diventa contemporaneo, legandosi a un passato in cui la colpevolezza si dava per scontata. Ne possiamo parlare apertamente oggi anche a proposito di Violette Nozière, che era comunque già stata riabilitata dal Generale De Gaulle. Il suo è stato un caso unico: aveva ucciso il padre e, pur condannata a morte, era tornata infine a una vita normale. Perché, anche se in maniera sotterranea, mai esplicita, la violenza che aveva subito era stata acquisita.
Portare Cechov a Taiwan
All’apertura generata dalla liberazione della parola si contrappone la chiusura della “cancel culture”. La influenza il dibattito in corso?
È un dibattito interessante, ma trovo che si spinga troppo in là se si arriva alla conclusione che non si possono più guardare i film di Godard o non si può più mettere in scena Cechov. La questione andava aperta, ma non si può mettere tutto in discussione così. Io porto Cechov a Taiwan e ne sono molto contenta.
Isabelle Huppert è Maureen Kearney in La syndacaliste (a ottobre al cinema distribuito da I Wonder). Questo film, come Mon crime, passerà ai Rendez-vous del cinema francese di Roma (29 marzo-3 aprile).
Le dà piacere partecipare a progetti come Mon crime o come La syndacaliste di Jean-Paul Salomé (passato agli Orizzonti dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, in cui Huppert interpreta Maureen Kearney, la sindacalista di Areva, colosso transalpino del nuclere, condannata per aver “messo in scena” il proprio stupro nel 2012 e poi assolta, al cinema a ottobre) che parlano di questioni molto attuali?
Non si fanno film per parlare di questioni attuali. Ci sono già le inchieste giornalistiche per portare allo scoperto le questioni del nostro tempo. Mon crime è divertente perché il mio personaggio è profondamente amorale. Il titolo del film si riferisce a questo: di un crimine ci si può appropriare se conviene farlo. La syndacaliste invece mostra come appare la donna-vittima a chi le crede e a chi non le crede. Addentrarsi nell’ambiguità: è questo che mi interessa.
Lei sa meglio di tutti noi quale sia il potere del cinema sull’immaginario. Ha riflettuto sui contenuti politici della Syndacaliste in un momento in cui il caso viene riaperto sui giornali e il conflitto sociale è infuocato?
No, ho certamente pensato che era una storia ispirata a eventi reali. Ma il cinema è più importante di tutto, anche della politica, per questo sono benvenute le zone d’ombra. Altrimenti avrebbero fatto un documentario e non avrebbero avuto bisogno di me. A me interessava prendere la storia vera, la persona vera e trasformarli in puri oggetti cinematografici. Questa donna per me non è una femminista, non è un politico, non è un simbolo, vuole “solo” salvare i posti di lavoro di 50mila persone. Che è comunque un bel po’! Chiaramente il contesto è ancora più bruciante ora con tutto il dibattito sul nucleare in Francia, ma non è questo che mi interessa.
Il rifiuto della sorellanza
Anche qui ci si interroga sui contorni della “vittima”.
Ma la sindacalista non vuole essere una brava vittima. O meglio, è una buona vittima a sufficienza, non vuole essere impeccabile. Perciò dopo l’assalto mette il rossetto. Il che fa di lei una vittima inaspettata e disturbante. Rifiuta di essere il pretesto per un dibattito femminista.
Un uomo sarebbe stato trattato in un altro modo, però.
Va come va perché lei è una donna, questo è sicuro. Per la natura dell’assalto (viene stuprata e marchiata con una A sul ventre, ndr), perché lavora – unica donna – in un mondo maschile, anche se non possiamo ridurla a questo cliché: il pericolo non viene solo dagli uomini.
Si è specializzata in ruoli di donne antipatiche…
Non sono d’accordo.
Nemmeno quando sono soavi antipatiche come Odette Chaumette? Ozon ha azzardato l’espressione sorellanza…
No, io inseguo piuttosto il desiderio di aprire la strada alla complessità, alle molte facce della realtà. Senza questo, cinema e letteratura sarebbero arti terribilmente noiose. Nel caso della Syndacaliste è interessante mostrare la doppia pena che le è stata inflitta: aver subito violenza e non essere creduta. In Mon crime, il mio personaggio è quello di una donna completamente impermeabile ai sentimenti e individualista. Non parlerei di alleanza femminile, no.
Nadia Tereszkiewicz in Mon crime.
Per questo le piaceva Claude Chabrol (con cui ha girato sette film): perché non era romantico, ma pragmatico, «mostrava la verità senza idealismo» come ha dichiarato in passato.
Non era romantico, come non lo era Flaubert che scriveva in un’epoca post-romantica e vedeva le persone nella loro piccolezza, senza idealizzare l’animo umano. Chabrol faceva lo stesso.
E infatti le chiese di essere, tra tutte, la più indimenticabile Emma Bovary. Si interroga mai sullo sguardo che i registi posano su di lei?
François Ozon, fino a questo momento, ma forse cambierà in futuro, mi vede come una presenza femminile un po’ isterica, esagerata. Mi identifica talmente con i ruoli cerebrali e silenziosi che ho interpretato in passato che ha voglia di farmi parlare a voce alta.
E a raffica…
Ho dovuto apprendere bene il testo, non è particolarmente difficile. È una tecnica. Ci vuole concentrazione, il ritmo è essenziale, soprattutto nelle scene con le due giovani attrici è importante non interrompersi. Parlare veloce va bene, ma bisogna lasciare che la frase respiri.
Isabelle Huppert e Lolita Chammah in Copacabana.
Lei è la protagonista (insieme a Fabrice Luchini) di un documentario, diretto da Benoît Jacquot, intitolato Par coeurs (“A memoria”), proprio sul rapporto dell’attore con il testo, sulla tecnica per impararlo e non disobbedirgli.
La memoria può funzionare solo nella precisione. Quando Benoît mostra un passaggio complicato, faticoso per me da apprendere, registra la mia resistenza a entrare in un’avventura, in quell’immaginario. Mi ha filmato al festival di Avignone qualche giorno prima della première e puntualmente quando sono andata in scena quel brano l’ho sbagliato. È stato divertente.
Com’è ritrovare sulla scena o sul set i vecchi amici (Fabrice Luchini in Mon crime interpreta il giudice istruttore) o sua figlia Lolita?
Lavorare con mia figlia è profondamente diverso da ritrovare un vecchio amico o un attore con cui ho condiviso un pezzo di strada, la linea del sangue non ha niente a che vedere con quella dell’amicizia. Ho fatto due commedie con Lolita, ed è stato molto difficile. Alla fine, ci siamo divertite, ma ha funzionato solo quando ci siamo rese conto che condividere il cinema non era niente rispetto a quello che condividiamo nella vita. C’è voluto un po’ per riuscire a trovare il modo giusto di lavorare insieme perché all’inizio, per l’imbarazzo, continuavamo a ridere.
Lei ha dichiarato che «ogni film è un documentario sugli attori». Era qualcosa che pensava anche Bernardo Bertolucci, convinto che alla fine gli attori rivelano un po’ di sé in ogni ruolo. Lei quanto è disposta a concedere?
E Antonioni diceva che ogni film è un’autobiografia… È un contratto cinquanta e cinquanta. Dai niente e dai tutto ogni volta. Io non ho niente a che vedere con le persone che porto in scena, ma loro hanno tutto a che vedere con me, perché sono io lì sullo schermo. È ogni volta un processo intuitivo, il dare e l’avere, questo significa essere un attore, almeno per me.
La stakanovista in vacanza
Si rivede?
Se sono stata brava mi rivedo, altrimenti evito. Ma se non sono stata brava non è mai colpa mia, è colpa del regista.
È una combattente? Lotta per avere un ruolo?
No, sono troppo pigra. L’unica cosa per cui lotto è tenere viva la mia curiosità.
Difficile credere sia pigra. Si immagina mai senza lavoro?
Ma io mi fermo, faccio vacanze come tutti. Quest’anno c’è molto teatro, sto recuperando cose accantonate a causa della pandemia. Ho portato dappertutto Il giardino dei ciliegi diretto da Tiago Rodrigues, poi sarà la volta del monologo di Bob Wilson (Mary Said What She Said, al Théâtre de la Ville di Parigi dal 13 aprile, ndr). Ho dovuto ripassare tutti i copioni. Ma non sento che lavoro costantemente. E anche se fosse così è un lavoro molto facile da fare il mio.
Amministra anche due sale cinematografiche.
Appartengono alla mia famiglia, a Parigi: si chiamano Christine 21 ed Ecoles cinéma club. In realtà se ne occupa mio figlio. Sono sale per cinefili, la gente viene da tutta la Francia e anche dall’estero per la programmazione che facciamo, moltissimi giovani.
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Lei va al cinema?
Sempre. Molte sale hanno chiuso in Italia, in Francia la situazione è migliore. Dobbiamo lavorare ma anche essere ottimisti, se chiudono tutti i cinema io cosa faccio, mi butto giù dalla finestra?
iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA