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Patria dei diritti e delle libertà. Ma anche luogo in cui si applica la pena di morte. Ciclicamente, quando l’esposizione politica, economica, finanziaria e militare degli Stati Uniti raggiunge i massimi livelli ed interessa il mondo intero, emergono le contraddizioni a stelle strisce. Nello scontro tra Putin e l’Occidente – il mondo, dopo mille sforzi per abbattere i muri, è di nuovo diviso – di settimana in settimana assistiamo ad attacchi sempre più mirati e duri nei confronti del padre-padrone della Russia.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nelle ultime quattro settimane ha definito Putin un “macellaio”, poi un “criminale di guerra” ed infine, due giorni fa, l’ispiratore del genocidio ai danni degli ucraini. Un armamentario di accuse al quale si affianca la richiesta dell’intervento della giustizia internazionale. A partire dalla Corte penale internazionale, creata nel 1998 con lo Statuto di Roma (gli Stati aderenti sono 124, oltre la metà dei 193 Stati facenti parte dell’Onu), che si è messa al lavoro dal 28 febbraio scorso per raccogliere le prove di una eventuale incriminazione dei responsabili (a livello individuale) dei crimini di guerra, contro l’umanità, aggressione e genocidio. Particolare non di poco è conto la ratifica dello Statuto di Roma. Non è avvenuta da parte di due superpotenze presenti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Russia e Stati Uniti. Identica posizione per Cina e Israele. L’Ucraina, invece, come ricordato dal Procuratore della Cpi, Karim Khan, all’indomani di una sua prima visita nel teatro di guerra, ha accettato nel 2015 la giurisdizione della Corte in relazione ai crimini internazionali commessi sul suo territorio a far data dal 20 febbraio 2014. Questa giurisdizione non copre, però, il crimine di aggressione, ma solo il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Pertanto, sia le autorità russe che quelle ucraine potrebbero essere indagate e perseguite davanti alla Corte penale internazionale, se dovessero ravvisarsi nella condotta del conflitto gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o dei diritti umani commesse dall’una o dall’altra parte.

La portata del crimine di aggressione è stata ampliata nel 2010 con l’«allegato I» degli accordi di Kampala e con la predisposizione dell’articolo 8 bis. L’atto di aggressione riguarda la «pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, che per carattere, gravità e portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945». L’atto di aggressione è poi ulteriormente definito dalla norma come «l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato». Nella definizione di atto di aggressione troviamo l’invasione, i bombardamenti, il blocco dei porti, l’attacco con forze armate o anche con eserciti mercenari. Un crimine che spesso viene tirato in ballo da più osservatori per rinfacciare agli Stati Uniti alcune pagine della storia dell’umanità degli ultimi trent’anni non certo gloriose.

Il pensiero va subito all’Iraq e all’Afghanistan, senza dimenticare l’ex Jugoslavia. I più critici – si pensi, per esempio, al docente universitario John Mearsheimer -, non negano le situazioni paradossali che affiorano nella guerra in Ucraina. È credibile il presidente Biden che invoca la giustizia internazionale per punire Putin, i suoi oligarchi ed i suoi generali e che guida una superpotenza indifferente al grande strumento di cui si è dotata la comunità internazionale con lo Statuto di Roma? Gli Stati Uniti non hanno ratificato, oltre alla Convenzione di Roma, la Convenzione internazionale sui diritti dei minori del 1989.Sulla considerazione degli Usa verso la Cpi, proiezione dello Statuto di Roma, è emblematico quanto accaduto neppure due anni fa. L’ex presidente Donald Trump, con l’appoggio incondizionato dell’allora Segretario di Stato, Mike Pompeo, firmò nel giugno 2020 un ordine esecutivo contenente una serie di sanzioni contro i funzionari della Corte penale internazionale.

Il motivo di un’azione così eclatante risiedeva nell’inchiesta, condotta dalla ex Procuratrice, Fatou Bensouda, sui crimini di guerra commessi anche da parte di soldati americani in Afghanistan, a partire dal 2003. Bensouda nel 2017 chiese alla Camera preliminare della Cpi l’autorizzazione per avviare le indagini sui presunti reati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi sul territorio afghano. Lo sdegno per le pratiche disumane scoperte nel carcere iracheno di Abu Ghraib era ancora forte. In un primo momento il Prosecutor vide negata l’autorizzazione, ma a seguito dell’appello presentato ottenne un significativo successo con il prosieguo delle indagini. Un’onta insopportabile per la superpotenza americana. L’attrito tra Stati Uniti e Corte penale internazionale vide il massimo della sua espressione in quella occasione. Washington non ha mai digerito la clausola prevista dall’articolo 12 dello Statuto di Roma, con la quale le viene conferita giurisdizione extraterritoriale sulle attività di uno Stato non membro nel caso in cui questo abbia commesso un crimine nel territorio di uno Stato aderente allo Statuto di Roma.

Quanto accaduto due anni fa è sintomatico dell’approccio statunitense a seconda delle situazioni: isolazionismo, multilateralismo, opportunismo. Le parole scritte nel 1998 nel Preambolo dello Statuto di Roma sono di una chiarezza unica. Evidenziano la consapevolezza degli Stati firmatari «che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto, memori che nel corso di questo secolo (il Novecento, nda), milioni di bambini, donne e uomini sono stati vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità». Parole, vedendo le immagini dall’Ucraina, ancora una volta dimenticate.