Una cucina straordinaria che anche sul fronte dello street food sa dire la sua: ecco gli assaggi “da strada” da provare durante un viaggio alla scoperta dei sapori giapponesi.
Lo street food in Giappone
Sushi e sashimi hanno conquistato il mondo, ma la tavola giapponese è ben più ricca: una cucina sfaccettata dalla storia antica, basata su un profondo rispetto per le materie prime, la stagionalità e la natura. Del resto, proprio la necessità di seguire il ritmo della natura ha permesso ai giapponesi di sviluppare tecniche di conservazione oggi divenute un punto fermo anche nelle cucine occidentali, come la salamoia, l’essiccazione e soprattutto la fermentazione. Il comparto del cibo da strada è altrettanto ampio e variegato: ecco tre assaggi da non perdere, più qualche curiosità sul celebre portapranzo, considerato a suo modo un altro street food.
Yakitori, gli spiedini di pollo
Il consumo di carne è stato a lungo vietato in Giappone. A partire dal 675 l’imperatore Tenmu emise un decreto che proibiva di mangiare carne da aprile e a settembre, molto probabilmente per via della diffusione del buddismo dalla Corea: non c’è un divieto ufficiale, ma la maggior parte dei buddisti preferisce seguire un’alimentazione vegetariana per perseguire il concetto fondamentale della compassione. In particolare, mucche e cavalli erano da considerarsi proibiti, così come il gallo, animale domestico necessario per annunciare l’alba. Più concessi, invece, uccelli selvatici come l’anatra o il fagiano. I primi banchi di yakitori, i celebri spiedini giapponesi ricoperti di salsa teriyaki, sono apparsi attorno a fine Ottocento e prevedevano proprio l’uso di pollame: il termine letteralmente significa “uccello arrosto”, anche se spesso veniva usata carne di maiale o manzo, perché meno costosa al tempo. Si tratta, comunque, di spiedini sfiziosi che hanno raggiunto la loro fama negli anni ’60 del secolo scorso, con la crescente diffusione del broiler, razza di pollo allevato per la carne.
Kakigori, la granita colorata
Un insieme di ghiaccio tritato e colorato con sciroppi, infilato in un cono di carta a mo’ di gelato: quando la temperatura inizia a salire in Giappone non c’è niente di meglio del kakigori, bevanda dissetante perfetta per rinfrancarsi dal caldo. Variopinto e colorato, il kakigori viene fatto con ghiaccio tritato molto finemente, tanto da risultare soffice, impalpabile: le scaglie di ghiaccio sottili e trasparenti vengono lavorate con una lama apposita fino a raggiungere una consistenza simile a quella della neve. Immancabili gli sciroppi in superficie, dai tradizionali alla frutta alle varianti più moderne e originali come il tè matcha. Un prodotto fresco e invitante che ha dato poi vita a uno dei piatti hawaiani più famosi, lo shaved ice: furono gli immigrati giapponesi che arrivarono sull’isola a metà Ottocento per lavorare nei campi di ananas e zucchero, a portare alle Hawaii il concetto di granita, usando inizialmente i pezzi di ghiaccio avanzati dai grandi blocchi che servivano a raffreddare gli strumenti di lavoro.
Taiyaki, i dolcetti con crema di fagioli azuki
Uno snack dolce da gustare a ogni ora, soffice e ripieno di anko, salsa dolce rossastra ricavata dai fagioli azuki e molto comune nella pasticceria nipponica. L’impasto dei taiyaki è simile a quello dei waffles, una pastella densa da cuocere in una padella di metallo con stampi di modelli diversi, il più delle volte a forma di pesce, da farcire con anko oppure creme o cioccolate. Antenati dei taiyaki sono gli imagawayaki, spuntini tondeggianti preparati con una pastella molto corposa e cotti su piastra di ferro: nascono nel quartiere di Kanda a Tokyo durante il periodo Edo (1603-1868), e fin da subito diventano una delle merende più popolari di sempre, diffondendosi in tutto il Paese. All’inizio del Novecento, il titolare di un negozio di imagawayaki, tale Sejiro Kanbei, ebbe l’intuito di cambiare forma al dolcetto per far fronte agli scarsi affari, creando così il primo taiyaki. Modellò la pastella a forma di orata, ma ancora oggi nessuno sa il motivo: molti ritengono che fosse un modo gentile per dare un’idea di lusso anche alle persone meno abbienti, considerando che l’orata era uno dei pesci più di pregio al tempo.
Come fare i taiyaki
Il dolce in veste nuova e con una pastella più sottile cominciò ben presto a prendere piede in Giappone, fino ad approdare a Tokyo, città che ne consacrò il successo. La stampa cominciò a pubblicizzare il taiyaki, che durante la Seconda Guerra Mondiale divenne un’ottima forma di business per racimolare soldi in poco tempo. Viaggiando in lungo e in largo per la terra nipponica, lo snack assunse forme e sapori diversi, e nacquero molte varianti regionali. Oggi lo si trova un po’ ovunque, dai venditori in strada ai negozi di alimentari che lo propongono surgelato, ed è immancabile durante feste ed eventi. Preparare i taiyaki in casa, comunque, non è difficile (occorre, però, avere la giusta piastra): la pastella è fatta con farina, lievito, bicarbonato, latte, zucchero e uova, mentre per il ripieno ci si può sbizzarrire con confetture e creme dolci.
Bentō, il portapranzo giapponese
Tecnicamente non è una ricetta, ma per i giapponesi è un cibo da strada a tutti gli effetti: stiamo parlando del bentō, portapranzo da tempo popolare anche in Europa,; onnipresente nelle stazioni nipponiche, in realtà nato come schiscetta casalinga nel tardo periodo Kamakura (1185-1333), quando le persone conservavano il riso bollito ed essiccato in una borsa. La versione moderna nasce verso la fine del Cinquecento, quando era pratica comune usare delle scatole di legno laccato per portare il cibo, soprattutto durante il periodo della fioritura dei ciliegi, l’hanami, o in occasione della cerimonia del tè all’aperto. A sancire il successo del bentō, però, fu il samurai Oda Nobunaga, che scelse di distribuire agli ospiti del castello dei pasti semplici e pratici. Col tempo, il portapranzo divenne un accessorio immancabile durante le gite fuoriporta, e ancor di più con il boom della ferrovia industriale durante il periodo Meiji (1868-1912), che diede il via alla diffusione dei vassoietti pronti in stazione chiamati ekiben. Negli anni ’20 arrivano i bentō di alluminio, più igienici e belli, sostituiti infine da quelli in Alumite, lega d’alluminio più leggera e resistente al calore. Ulteriore svolta arriva dopo gli anni ’80 con l’avvento dei konbini, piccoli negozi economici che vendono un po’ di tutto, e soprattutto con la diffusione del forno a microonde che permette di scaldare le pietanze in tempi rapidi.
a cura di Michela Becchi