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Com’è cambiato, per Vincent Peters, il mondo della fotografia d’autore di fronte all’estetica della simultaneità proposta dai social media? La variegata galassia della fashion photography come può rispondere alla sfida? E ancora: che valore attribuire, nel XXI secolo, al “classico” bianco e nero? Di questi e altri temi abbiamo parlato con Vincent Peters, voce tra le più autorevoli e originali della fotografia contemporanea, l’artista che ha immortalato l’universo delle celebrità di Hollywood – da Charlize Theron a Emma Watson, da Scarlett Johansson a Cameron Diaz -, senza mai cedere alle lusinghe della “posa raggelata”, lungo un percorso fatto di coerenza e riflessione. Perché anche un genere apparentemente “codificato” dalle leggi del business può avere molto, moltissimo da raccontare

Vincent Peters, Charlize Theron, New York, 2008 © Vincent Peters.

Basta inquadrare tutto dalla giusta prospettiva. Vincent Peters sa benissimo cosa vuole ottenere da un’immagine: un senso di naturalezza e narrazione psicologica. In fondo, racconta, “uno scatto riuscito è come una piacevole conversazione”, porta con sé una storia, che è anche “un racconto della condizione umana”. Come un film condensato in solo fotogramma. 90 sue opere realizzate tra il 2001 e il 2021 sono ora esposte nelle sale dell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale a Milano per la mostra “Timeless Time” (fino al 26 febbraio, ingresso gratuito), a cura di Alessia Glaviano, Curator & Head of Global PhotoVogue. Una galleria di immagini rigorosamente rivelata dai chiaroscuri e dalle mille sfumature del bianco e nero, perché, prosegue Peters, “il bianco e nero è ciò che i nostri occhi non possono vedere. È un linguaggio unico che la fotografia ha portato in questo mondo”. Ecco l’intervista di AD

Ha iniziato la sua carriera nel mondo della fotografia di moda con la famosa agenzia di Mario Testino. Qual è stata la lezione più importante di quegli anni?

«Certo, quando ho cominciato con loro ero ancora troppo inesperto per lavorare a un livello così alto… nell’alta moda intendo. Inoltre ho sempre privilegiato un approccio creativo e una prospettiva artistica. Ho dovuto imparare in fretta, comprendere che ciò che mi circondava era prima di tutto un business. Era necessario abbinare a una finalità commerciale un risultato estetico ed emozionale che intendevo comunque ottenere. C’è da dire che lavorare in un ambiente del genere è davvero come scattare una foto da un treno in corsa, occorre essere molto intuitivi ed espliciti su ciò che si sta cercando di comunicare in quel momento». 

Vincent Peters, Monica Bellucci, Roma, 2006 © Vincent Peters.

Com’è cambiato il mondo della fotografia di moda nel corso degli anni? E quale ruolo hanno avuto i social media?

«Provo a dare una risposta breve ma non è facile. Di solito i social si occupano della comunicazione per mezzo di un’immagine singola. Catturare immediatamente l’attenzione con il minimo sforzo. Al contrario, la fotografia di moda classica degli ultimi cento anni è sempre stata incentrata sulla narrazione, servizi lunghi: dalle otto alle dodici pagine. L’abilità creativa consisteva nell’avere idee e contenuti non episodici, che consentissero di raccontare storie e di raccontarle poi da diversi punti di vista. E creare personaggi differenti grazie alle modelle, perché erano loro a emozionare animando le storie. Inoltre, se era ben raccontata, ogni storia doveva essere in qualche maniera collegata alla condizione umana. Quello che accade oggi alla fotografia di moda è riassumibile in un paradosso: è come ridurre la durata di un lungometraggio a quella di trailer di venti secondi, venti secondi carichi di effetti e di suggestioni visive. Ma senza storia… Pare si tratti di impressionare il pubblico il più possibile piuttosto che di esprimere qualcosa di autentico e di personale».

Lei ha lavorato molto sul ritratto. Che influenza hanno avuto il mondo dell’arte o la storia del cinema sulla sua personalissima concezione del genere?

«Come il cinema, la fotografia offre la possibilità di raccontare storie molto personali, itinerari interiori che sono anche un viaggio alla scoperta di se stessi e della propria identità, sia per l’artista che per il pubblico. È un percorso che può raggiungere le zone meno esplorate della personalità di un individuo, difficili da sondare in altri modi. Mio padre mi raccontava le trame dei film come si raccontano le favole ai bambini. E ho capito che c’è un modo per decodificare le emozioni. Tra chi recita sullo schermo ma anche tra il regista o il fotografo e gli spettatori. È un codice emotivo che si traduce in generi diversi. È il modo in cui le persone provano un coinvolgimento emotivo guardando un film degli anni ’50’70,  o i dipinti rinascimentali, o le stesse opere fotografiche nei  diversi decenni». 

Vincent Peters, Amanda Seyfried, Paris, 2015 © Vincent Peters.

Lei ha immortalato i volti di molte celebrità: c’è qualche aneddoto che ricorda con particolare emozione?

«Credo che in una buona fotografia si renda visibile una parte autentica di sé che resta impressa nell’immagine. Ritrarre una celebrità è un modo per rendere emozionante la storia che si intende raccontare e consentire al pubblico di identificarsi con la star. La qualità principale in un buon attore o in una buona attrice è la capacità di trattenere le emozioni del pubblico e di farlo sentire parte della storia e del loro vissuto. Uno scatto riuscito è come una piacevole conversazione, in cui non si tiene tanto conto delle verità più profonde quanto di una certa onestà intellettuale durante lo scambio reciproco di informazioni, soprattutto nel momento più interessante. Bisogna ricordare che queste persone, che poi sono diventate così famose, hanno dovuto attraversare un lungo percorso costellato anche di rifiuti, in qualche caso di solitudine. È così che sono arrivati dove sono». 

Qual è l’attrice con cui ha avuto un legame immediato durante il suo lavoro?

«Difficile rispondere. Penso che la parola musa sia molto abusata, ma c’è della magia quando senti che l’emozione particolare che intendi trasmettere nelle tue immagini prende vita attraverso quella data persona. Allo stesso tempo senti che il ruolo che lei sta interpretando nella tua storia è qualcosa in cui l’attrice è completamente a suo agio». 

Che ruolo ha il set nella creazione dei suoi scatti?

«Ha un ruolo molto particolare, importante, perché getta le basi per l’atmosfera complessiva della scena. E anche se cerco sempre un’immagine molto precisa, vorrei arrivare a tradurla in scatto per caso, così da mantenere la leggerezza e l’improvvisazione». 

Come riesce a mettere in posa i volti in modo così naturale?

«Credo che il risultato sia in gran parte già ottenuto prima di arrivare in studio: c’è una certa curiosità su ciò che ti piace rivelare dell’interlocutore e di te stesso grazie alla fotografia, proprio per questo penso che uno scatto sia prima di tutto una conversazione».  

Vincent Peters, Emma Watson, London, 2012 © Vincent Peters.

Bianco e nero: potremmo dire una scelta poetica. Perché?

«Il bianco e nero è ciò che i nostri occhi non possono vedere. È un linguaggio unico che la fotografia ha portato in questo mondo. E, come abbiamo scoperto, mostrare le cose, la realtà in bianco e nero, che si tratti di un paesaggio o del volto di una persona, trasmette un’emozione molto particolare che non saremmo in grado di comunicare in altro modo. È come uno strumento musicale, per esempio il pianoforte: una melodia suonata al piano trasmette emozioni completamente diverse dalla stessa partitura eseguita da qualsiasi altro strumento. La cosa interessante della fotografia è che, anche se sembra reale e concreta, ha la capacità di svelare aspetti molto diversi e inaspettati di un soggetto». 

Cosa vuole ottenere da un’immagine?

«Per me l’arte non è mai una destinazione, non è mai un fine, è sempre un ponte verso un posto dove intendo portare qualcuno. Poi, quando è lì, devi lasciarlo libero di andare… sperimenterà lui stesso, nel suo modo unico e personale. Non si può insegnare in nessun modo a qualcuno ciò che ha nel cuore. Mi piace accompagnare il pubblico in luoghi dove non sarebbe mai stato senza le mie immagini, ma quello che provano le persone quando sono lì è una cosa che riguarda loro e loro stessi. Tra loro e quello che hanno vissuto». 

Vincent Peters, Scarlett Johannsson, New York, 2017 © Vincent Peters.

C’è un luogo architettonico in particolare, in Italia o nel mondo, in cui le piacerebbe realizzare un servizio fotografico? Perché?

«L’Italia ha di sicuro i luoghi più incredibili e stimolanti, perché il Paese, nel suo complesso, è un posto unico. Il vocabolario italiano è stato così ben delineato dal neorealismo cinematografico che per molti versi ha già colonizzato il nostro subconscio. Un po’ come per le location americane. Sono luoghi che hanno un vissuto emotivo molto forte, per cui è stimolante – ma anche interessante – giocare con i cliché». 

Tra i suoi progetti futuri c’è Suite Art, creato in collaborazione con Rocco Forte Hotels, che presenta artisti internazionali nelle varie proprietà del gruppo. Di cosa si tratta esattamente?

«Sì, sono molto grato di essere fra gli artisti selezionati e chiamati a collaborare con il gruppo Rocco Forte: stanno costituendo una collezione molto prestigiosa, che sarà esposta in molti Paesi». 

Le piace seguire il lavoro dei giovani talenti? Ce n’è qualcuno che apprezza in modo particolare? Perché? 

«Credo che oggi il problema più grande degli artisti giovani ma anche degli artisti in generale, sia legato alle modalità distributive, molto “anonime” e improntate all’usa e getta. I lavori interessanti che vengono presentati sui social sono solo qualcosa di passaggio. Sono parte di una catena infinita, di una dinamica della comunicazione che propone immagini continue, concepite principalmente per attirare l’attenzione. C’è un termine che mi pare riassumere bene questo discorso: “dynamic stabilization”. Un artista o un’opera d’arte possono essere fruiti solo se si “muovono” di continuo su canali diversi, come se facessero parte di un “programma” che muta senza sosta. Fermarsi o abbandonare il programma vorrebbe dire allontanarsi dal pubblico. Una delle ragioni per cui sono così felice della mostra a Palazzo Reale, è perché posso finalmente vedere persone che si siedono e si riposano davanti alle opere disponendo autonomamente del proprio tempo, senza essere costrette a seguire un programma in continuo e incessante movimento!».