Una casa d’artista, un atelier creativo, dove prendono vita le sculture materiche di Francesco Diluca, scultore che indaga il delicato rapporto tra umano e natura (e le sue inevitabili conseguenze), come raccontato nella sua ultima mostra a Lodi, Giardini. Un’esposizione di grande respiro, dislocata in varie sedi, dal Museo Gorini – dove le opere erano visibili negli spazi della Collezione anatomica – alla Ex Chiesa di Santa Chiara. In particolare al Museo Gorini erano visibili cinque cicli di opere: Germina, Skin, Radicarsi, Papillon e Kura Halos. Cinque installazioni che rappresentavano le varie stagioni della vita, sempre in continuo mutamento: nascita, maturità, morte e rinascita. Tutte le sculture di Diluca – stimato e apprezzato anche in ambito internazionale, come a Venezia – sono infatti figure di metamorfosi: le sue esili strutture arboree antropomorfe, accolgono al loro interno la natura, si tramutano in foglie d’oro, farfalle o coralli, simboli per eccellenza del cambiamento. Anche lo studio/galleria/dimora di Diluca ha questa caraterristica di mutevolezza: il mobilio poggia su ruote, l’energia circola libera, si cambia dispozione in un battibaleno. Insomma, ci si adatta, alla vita, al tempo, alla natura. La sua è una poetica della leggerezza che si sprigiona dalle fratture, dalle interconnessioni, come luce che filtra attraverso la pelle.
Francesco, da creativo onnivoro, con una laurea in Architettura e un’irresitibile passione per l’object trouvé, ha riprogettato, disegnato e arredato la sua nuova casa-studio, un luminoso e silenzioso ex opificio dei primi del Novecento, un regno di quiete essenziale, che se ne stava lì, come addormentato, lungo il Naviglio Pavese a pochi passi dalla Darsena, a Milano. Fino a che Francesco non l’ ha scovato, come ci racconta in questa intervista.
Diluca era da molto tempo alla ricerca di un nuovo studio dove poter lavorare e insieme vivere. A piacergli erano quelle zone “acquatiche”, operose, con grandi spazi, dislocate lungo il Naviglio, una parte della città meneghina che l’artista ama girare a piedi o in bicicletta. Nasce così, per caso, la sua storia d’amore con questo luogo.
“Mi serviva uno spazio proprio come questo. Ho voluto un luogo dove poter riflettere e lavorare tranquillamente. Lo studio, pur essendo in una posizione centrale e in una città veloce e dinamica come Milano, ha un suo carattere, calmo e silenzioso: è un luogo intimo, dove il mio lavoro si scopre poco alla volta. Ho disegnato ed eseguito personalmente tutto il progetto. Ho studiato architettura, oltre ad avere una forte passione per il design, quindi mi è sembrato più comodo e veloce gestire il restauro da solo”.
In che modo ti rappresenta questa dimora?
“Lo spazio è inizialmente nato come studio, ma poi ho diviso gli ambienti in diverse zone, e così dare vita a una casa/atelier è stato un passaggio naturale: qui c’è tutto di me, il mio lavoro, le mie piante, le opere, tutto si fonde in armonia con la parte dove abito. Questo è un luogo dove regnano la luce e il silenzio. È un posto che mi aspettava: ho plasmato gli spazi in modo utile per lavorare e avere un ambiente accogliente dove stare con la mia famiglia. La cucina open plan è stata studiata per organizzare cene con tanti amici: il bancone in pietra è un po’ il centro della casa dove si crea istantaneamente un’atmosfera conviviale”.
Come convive la tua arte con questa casa?
“Lo spazio dove lavoro è diviso ermeticamente dallo spazio abitativo con grandi finestre. Sono vere e proprie pareti di vetro alte più di quattro metri, che isolano lo studio dove utilizzo la saldatrice e le vernici; sempre al piano inferiore ci sono anche il magazzino, e una parte che definirei “galleria”. La luce si diffonde nell’intero spazio, regalando prosperità alle tantissime piante. Molte parti d’arredo le ho disegnate e progettate tenendo conto delle esigenze di uno studio d’arte. Tutto qui è montato su ruota, quindi in poco tempo lo spazio può cambiare drasticamente, e diventare ideale per un set fotografico o per lavori di grande dimensione”.
Sei un amante del design, e si vede…
“Negli anni ho scovato molti pezzi di design salvandoli letteralmente dalla strada e ora ho una bella collezione di sedie d’autore. Ho personalmente restaurato delle 646 di Gio Ponti, delle Thonet e recentemente anche una Cesca di Marcel Breuer! Tra mercatini e viaggi ho recuperato lampade Artemide, Flos, Murano Due, un grande schedario topografico e alcuni mobiletti anni ‘60. Ho anche salvato dalla discarica sei grandi lampadari in ferro zincato, bellissimi”.