“Verdicchio, verdicchio, suona fresco, ancora vivo, suona leggero, umile, giovanile, naturale, grazioso, gentilmente pungente, vegetalmente acerbetto e piacevole come un rametto verde pallido, croccante, cricchiante”. Così Mario Soldati, nel corso dei suoi itinerari degli anni Sessanta nel mondo enologico italiano, raccolti nel suo “Vino al vino”, trovava aggettivi lusinghieri per un prodotto che ricordava di aver considerato, prima della guerra, come il miglior bianco italiano. E ancora: “si pensa ai Riesling, ai Neuchâtel, agli Chablis, ai Gewürtraminer, ai Pinot grigi. La classe è la stessa, ma la composizione degli aromi, è diversa, unica”.
Identificato come pochi vini al mondo soprattutto in base al suo contenitore (l’anfora dalle forme vagamente etrusche disegnata dall’architetto milanese Antonio Maiocchi), il Verdicchio rappresenta uno degli esempi più significativi di vino italiano del tutto autoctono, sia per le origini che per la comprovata capacità di espressione ottimale nel territorio delimitato dal disciplinare di produzione. In effetti sin dal primo riconoscimento della doc viene immediatamente evidenziata l’area definita “classica”, particolarmente vocata rispetto a quella, più ampia, interessata alla produzione di Verdicchio dei Castelli di Jesi.
Già, proprio quei celebri castelli dove la famiglia Tombolini si è rivelata un’autentica pioniera di valorizzazione, utilizzando per l’appunto dagli anni ’50 l’iconica bottiglia ad anfora e scegliendolo di vinificare in acciaio, a temperatura controllata, in purezza, già nei primi anni ’70. Nel 2013 Carlo Paoloni decide di affiancare nella proprietà la madre Fulvia Tombolini, la quale, a sua volta, con altrettanta energia e inclinazione, ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo dell’azienda e ad avviare un percorso verso una viticoltura sostenibile.
Siamo a Staffolo, da secoli tra i Castelli di Jesi più vocati alla viticoltura. È qui che si estendono i 30 ettari di vigneti dell’azienda Tombolini, gestiti dal 2011 praticando la lotta integrata e ora in regime rigorosamente biologico. Un anfiteatro naturale nella zona sud della denominazione, più vicino alle vette degli Appennini che al mare, dove i terreni a prevalenza arenaria, alternata ad argille azzurre ricchissime di carbonato di calcio, permettono alle uve di maturare più lentamente, mantenendo così un ottimo bilanciamento tra acidità e zucchero.
James’ Tasting
Doroverde 2020 Tombolini
Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore
Su terreno argilloso nella parte più alta e più calcareo scendendo verso sul versante, a 250 m slm con esposizione est e allevamento a guyot, nasce un nettare vinificato in acciaio e poi sul finale in cemento. Il nome rimanda ai Dori, Greci da Siracusa fondatori di Ancona, ai colori delle campagne e al loro frutto finale, mentre la sua immagine è Staffolo, sotto la neve, ovvero i luoghi da cui la famiglia ha storicamente prodotto il Verdicchio. Ricordi di glicine molto rinfrescanti, palato di buona densità gustativa, sfumature di mandorla e pompelmo rosa: il calore e la fibra non ne frenano la dinamica sapida.
James’ Tasting
Castelfiora 2020 Tombolini
Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore
Da argille e arenarie di Borello, a 230 m slm, sempre con esposizione est e allevamento a guyot, si erge un Verdicchio “storico”, vinificato in acciaio ma invecchiato in barili di rovere francese con qualche frazione in ceramica. Storico perché il suo appellativo viene coniato da Giovanni Tombolini nel 1972, coniugando il Torrione del Cardinale Albornoz (XIV sec.), simbolo del Castello di Staffolo e proprietà di famiglia, al nome di sua moglie Fioretta. Olfatto dai tratti solari, di fieno e di torba, palato avvolgente che coniuga freschezza e cremosità, con rimandi di grano maturo e agrumi canditi: la dolcezza è tutta nel frutto.