Quando per prima volta il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, è venuto a cena a casa non abbiamo parlato solo di riforme della giustizia ma ci siamo avventurati anche nel campo della cinematografia, commentando insieme alcune scene di uno dei nostri film preferiti: ‘Il caso Thomas Crawford’, con Anthony Hopkins e Ryan Gosling.
Professore ho scoperto che lei è un vero cinefilo.
Mi piace andare al cinema. Il mio film preferito è ‘In the Mood for Love’, una produzione cinese degli anni 2000. Ma sono appassionato anche di pellicole e serie tv che trattano casi di cronaca giudiziaria e raccontano i processi. Da poco ho fatto anche l’abbonamento a TimVision e sono immerso nella visione della serie americana ‘The Good Wife’.
Serie molto bella, concordo. Lei trasferisce la passione anche ai suoi studenti, visto che continua ad insegnare.
Non solo, anche agli avvocati. Ogni anno con le Camere Penali organizziamo a Rimini la proiezione di un film che tratta i temi della giustizia e poi dibattiamo tutti insieme. Film e serie tv, come quella su Perry Mason, sono entrati nelle case degli italiani e al di là dell’intrattenimento ci spingono a fare serie riflessioni comparative tra il processo italiano e quello anglosassone. Ne discuto anche alla Scuola Ufficiale Carabinieri, a quella di Polizia e con gli studenti.
Ma che film fa vedere?
Film francesi come ‘L’Affido Una storia di violenza’ e ‘J’accuse’ diretto da Roman Polanski sull’Affare Dreyfus. Non manca mai ‘Il caso Thomas Crawford’ perché lì si vede tutto del caso, dall’omicidio al processo, passando per la raccolta delle prove e terminando con il principio di diritto del ne bis in idem. Ma abbiamo visto anche ‘Il diritto di opporsi’ sulla pena di morte. Insomma scelgo film e serie tv in cui i profili processuali sono raccontati in maniera tecnicamente apprezzabile.
‘Il caso Thomas Crawford’ è emblematico di come funziona la giustizia negli Usa.
Da un lato sì, ma rappresenta uno dei tanti tipi di processo che si celebrano negli Stati Uniti. È il processo dei ricchi mentre se vedi il primo episodio della settima stagione di ‘The Good Wife’ prendi visione di quello che racconta anche il professor Vittorio Fanchiotti nel suo recente libro ‘La giustizia penale statunite – Procedure v. Antiprocedure’ pubblicato da Giappichelli: a New York possono essere arrestate nella notte anche trecento persone, ammassate tutte in grandi stanzoni e da lì inizia il girone dell’inferno delle cauzioni e dei patteggiamenti. La giustizia americana non è solo quella dei grandi studi legali ma anche quella dei poveri, dei neri e degli emarginati che, per esempio, non possono permettersi di pagare l’investigatore privato per cercare elementi a discolpa.
Ma qual è la prima differenza che nota tra la rappresentazione americana e quella italiana?
La filmografia americana è tutta concentrata sul dibattimento, sull’oralità e soprattutto sul ruolo dell’avvocato. Mentre nelle nostre produzioni l’attenzione è più sugli investigatori e sul rappresentante dell’accusa.
Diciamo che qui da noi l’avvocato è visto come l’azzeccagarbugli che vuole farla fare franca al suo cliente, mentre negli Stati Uniti è colui che ti salva, anche pro-bono, dalla pena di morte o che in generale combatte per i diritti dell’indagato contro le angherie della polizia, spesso corrotta o impegnata ad inquinare le prove.
Esatto. L’unica eccezione forse è il film ‘I nostri ragazzi’ con Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Giovanna Mezzogiorno, Barbara Bobulova. Lì un avvocato scopre che sua figlia ha picchiato una barbona e decide di denunciarla, mentre l’altro fratello, che era stato inizialmente dipinto come il rispettoso delle regole, il garantista, si oppone perché è coinvolto anche suo figlio. In generale nelle nostre produzioni c’è il tentativo di trasformare il processo in una commedia. Mentre nel processo anglosassone il difensore è visto come il garante dei diritti.
Quali sono altri tratti distintivi tra i due sistemi?
Lì hanno due tipi di processi, quello federale – vediamo spesso in tv i casi gestiti dall’Fbi su droga, terrorismo, traffico di esseri umani- e poi quelli statali.Mentre negli Usa ci sono due treni ad alta velocità, qui abbiamo solo un binario, quello della Procura della Repubblica che si occupa del semplice furto ma anche delle stragi di criminalità organizzata. L’obiettivo del pubblico ministero è quello di aumentare l’imputazione per godere delle maggiori potenzialità inquisitorie, tipo i trojan. A Roma si è istruito un processo per Mafia capitale, poi non era mafia, ma che importa per alcuni.
Ricordiamo che negli Usa il prosecutor è elettivo, se sbaglia paga.
Giusto, qui invece c’è un problema culturale con la responsabilizzazione del pm. Poi la grande differenza è quella della giuria popolare.
A proposito della giuria, leggevo nel libro di Fanchiotti che in alcuni casi negli Usa il mandato di arresto può essere autorizzato anche dal cosiddetto clerck, una specie di cancelliere, non necessariamente laureato. Basta che sia imparziale e distaccato, in grado di decidere se esista la probable cause.
La giustizia è davvero amministrata dal popolo e non nel nome del popolo, come avviene da noi dove deleghiamo al giudice togato. Come noto, esistono i consulenti chiamati a determinare gli appartenenti alla giuria. In quel sistema la decisione è affidata a 12 persone, mentre il giudice è solo l’arbitro del processo.
Sì, in alcuni casi impiegano anche due giorni per fare la selezione della giuria. Nel caso di O.J. Simpson impiegarono tre mesi.
Consiglio sul tema il bellissimo film del 1957 ‘La parola ai giurati’ con Henry Fonda, tutto girato in una Camera di Consiglio: dodici giurati sono riuniti per decidere della sorte di un accusato d’omicidio. Undici lo ritengono colpevole. Soltanto uno lo considera innocente, ma per salvarlo dalla condanna a morte bisogna raggiungere l’unanimità.
Un altro aspetto che ci differenzia è che negli Usa il secondo grado è solo per questioni formali.
Sì, solo in caso di violazione di diritti costituzionali.
Forse allora è meglio il nostro sistema che dopo il primo grado ci offre un altro giudizio di merito e uno di legittimità.
Se la giuria è stata scelta bene, se il giudice ha rispettato le regole, se la difesa ha potuto esercitare i suoi diritti non ho bisogno di rifare un nuovo processo. Lì hanno un vero sistema accusatorio, che noi non abbiamo: immediatezza, concentrazione delle udienze – lo vediamo spesso nei film: ‘la Corte si aggiorna a domattina alle 9’, per esempio – oralità, stesso giudice. Quindi è necessario qui in Italia avere un appello.
Le scene più belle dei film americani sono quelle in cui si mette in scena la cross-examination, il contro-interrogatorio. Attimi di vera tensione.
Molto interessante una serie inglese – ‘Anatomia di uno scandalo’ – dove la presunta vittima di uno stupro viene sconfessata da un abile difensore dell’imputato che con poche e secche domande riesce a minare la sua versione dei fatti. Mentre da noi è una procedura svilita dall’invadenza del giudice. E poi una cosa che ci insegna quel sistema è di non fare mai una domanda al proprio testimone di cui non si è sicuri della risposta.
Un caso eclatante è proprio quanto accaduto nel processo contro O. J. Simpson.
Il processo viene ripercorso nella serie Netflix ‘The People v. OJ Simpson’. Un procuratore azzardò in Aula nel fargli provare il guanto che avrebbe indossato l’assassino. Ma non gli entrò e quell’episodio lo scagionò.