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In Russia il kombinat militare-industriale è la vera struttura di potere che ha spinto per l’invasione dell’Ucraina. E che non ha esitato a piegare gli stessi oligarchi, che invece per arricchirsi avrebbero bisogno della pace. L’analisi di Gianfranco Polillo

L’Europa, ma più in generale l’Occidente, ha avuto nei confronti di Vladimir Putin un colpevole sentimento di accondiscendenza. I segnali di una rinnovata aggressività, nel segno della destabilizzazione contro gli altri Paesi, si erano visti da tempo. Gli strumenti usati erano a metà strada tra il soft e l’hard power. Rivolti non proprio a migliorare il prestigio culturale della Federazione Russa, ma (questo sì!) a “convincere” quote crescenti di elettori occidentali a votare per quei candidati, che meglio si confacevano agli interessi dell’ex Unione sovietica. Il definitivo passaggio verso l’hard power, con l’invasione militare dell’Ucraina, altro non è stato che la conseguenza logica di quell’appeasement e della mancata azione di contrasto da parte dell’Occidente. Elementi che hanno contribuito a creare nel Presidente Russo, ma soprattutto nell’entourage, che lo sostiene, un delirio di onnipotenza.

Da quel lontano settembre del 1938, è passato quasi un secolo. Ma quegli avvenimenti, che segnarono il primo cedimento dell’Occidente nei confronti del Führer, sono rimasti elemento indelebile nella memoria collettiva. Al punto che accennare a Monaco riporta subito alla mente la scialba figura di Chamberlain, il leader inglese, che ebbe il torto, di non vedere, soprattutto non capire, quello che la storia stava apparecchiando. Allora la grande illusione kantiana della pace perpetua disarmò l’Occidente ed armò la mano del dittatore. Un bis che non si deve ripetere. Fare ogni tentativo possibile per evitare l’escalation del conflitto. Ma, al tempo stesso, avere ben presenti i limiti intrinseci di questa strategia.

Anche in questo caso, come allora, il rischio maggiore è l’effetto domino. Le giustificazioni finora fornite dal Cremlino sono inesistenti. Chi minacciava i confini dello Stato? L’ipotesi di un ingresso dell’Ucraina della Nato era, al momento, solo teorica. Richiedeva un consenso che non c’era tra i tutti i Paesi aderenti all’organizzazione. E gli stessi Stati Uniti, più che esercitare una qualche forma di pressione sui propri alleati, poco potevano. Del resto lo si è visto nel pellegrinaggio di molti leader europei – da Olaf Sholz a Emmanuel Macron – a Mosca. Elementi di grande preoccupazione, ma anche di forte autonomia. Ed infatti sono immediatamente cessati – la rinuncia di Draghi – quando le armi hanno fatto sentire la propria voce. E costretto l’Occidente ad unirsi, nuovamente, contro l’orso post (?) sovietico.

Ma se non c’era alcuna motivazione che giustificasse l’attacco, allora quale sono le reali intenzioni di Vladimir Putin? Decifrarle è tutt’altro che semplice. Tuttavia nel suo discorso in TV, dello scorso 21 febbraio, colpiscono soprattutto i riferimenti storici, che riportano agli inizi dello scorso secolo. Quel plauso convinto a favore di Stalin, accompagnato dalla critica alle posizioni di Lenin, sull’autodeterminazione dei popoli, lascia basiti. Si ritorna a prima del XX congresso del PCUS, l’inizio di quel processo di destalinizzazione, che, oggi, Putin sembra rimettere in discussione.

Ed allora il sospetto che si voglia di rimettere indietro le lancette dell’orologio é più che fondato. A Mosca, si pensa, forse, a nuovi confini. Gli stessi che caratterizzarono il perimetro della vecchia Unione sovietica. Con un balzo indietro di oltre trent’anni. Ed il riaffermarsi della dottrina della “sovranità limitata” da applicare a tutti quei territori che, in qualche modo, avrebbero potuto far gola all’espansionismo della “grande madre Russia”. Termine usato non a caso. Questa è la cultura più profonda di quelle terre. Talmente potente dall’aver determinato, con Lenin, una trasformazione profonda, nel segno del “populismo”, dello stesso corpo dottrinario del marxismo, che aveva caratterizzato la II Internazionale.

Ed oggi è ancora quello il filo rosso che collega avvenimenti lontani: l’Ungheria del 1956, la Cecoslovacchia del 1968, l’Afganistan del 1979 – 89. Ed identica la strategia militare seguita, che, a sua volta, presuppone a monte una struttura militare rimasta, più o meno, inalterata. Vero elemento di continuità di una lunga storia. La grande potenza e mobilità delle forze convenzionali – carri armati, logistica, missilistica, aviazione e marina – in grado di conquistare rapidamente dei semplici avamposti, per poi proteggerli, con la deterrenza nucleare. Si pensi al Vietnam. Chi è disposto, oggi, a morire per Kiev, correndo il rischio di cadere sotto quella che è “l’arma fine di mondo”?

Ma come si è arrivati a tanto? Nel mondo, la globalizzazione è stata percepita come l’avvio di una nuova era. Trionfava il mercato o meglio la grande finanza internazionale. Scomparivano i conflitti che nel ‘900 aveva insanguinato il Pianeta. Si poteva comprare e vendere tutto. Se il gas russo costava meno di quello algerino o libico, perché pensare, come in passato, ad una diversificazione delle fonti energetiche? Cose passate di moda, come l’idea che lo Stato potesse comunque essere un soggetto attivo, nell’organizzazione del sistema economico e sociale.

L’importante era tornaconto immediato, “il pagamento in contanti” avrebbe chiosato Marx, non certo i passi lunghi delle strategie geopolitiche. Si pensava che il capitale, nelle sue diverse articolazioni, avesse bisogno solo di pace e tranquillità per perseguire i propri fini. Il conflitto era derubricato a guerra locale, figlio della relativa arretratezza di alcuni Paesi o di porzioni di territorio. Ma le grandi potenze – si pensi al progressivo ritiro degli USA – non avevano alcun interesse a fomentare quei disordini, che facevano male agli affari.

Un’illusione grande come l’idea che la democrazia potesse essere esportata. Che il processo di omologazione potesse portare al convergere verso un comune sistema di valori. Ebbene, così non è stato. Nella Russia di Putin, il complesso militare non ha mai deposto le armi. È stato silente, ma tutt’altro che inoperoso. Ha investito in nuovi armamenti. Potenziati quelli esistenti, dando luogo ad un kombinat (Комбинат in russo) militare-industriale che è la vera struttura di potere che domina la scena. E che ora non ha esitato a piegare gli stessi oligarchi, che invece per continuare ad arricchirsi avrebbero bisogno della pace, nel tentativo di riaffermare quell’egemonia che il tempo e le gravi contraddizioni del socialismo reale avevano progressivamente demolito.

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ANALISI E APPROFONDIMENTI DI START MAGAZINE SU RUSSIA, UCRAINA E GUERRA:

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